La collezione d'arte di Verdi

Casa Verdi mette gli Ospiti anche a contatto con le più significative cose di Verdi stesso, in particolare l’appartamento del Maestro quando viveva a Genova, in Palazzo Doria, privatissima abitazione, in cui pochi amici venivano ammessi.

Ci sono dunque mobili datati, di un gusto che oggi può anche fare un po’ sorridere, con la possibilità peraltro di ritornare prestissimo di moda: ad esempio la Sala Turca, arredata alla moda orientale, come in Europa si respirava a fine Ottocento. Soprattutto però ci sono quadri, cari al Maestro, su cui l’occhio dello studioso d’opera viene aguzzato golosamente.

Per esempio c’è il quadro di Domenico Morelli ispirato ai “Foscari”, del 1857. I Foscari erano una famiglia gloriosa di dogi veneziani, destinata alla rovina, calunniata, vinta...: chi ha in mente il quadro sontuoso del Delacroix e vede questo bozzetto del Morelli sente una profonda differenza di civiltà: qui l’anziano doge sostenuto affettuosamente dai parenti, in un’immagine di grande spessore umano e di pietà. Certo, l’opera di Verdi, del 1844, influì. È un documento, anzi un segno, di come lo sguardo verdiano abbia insegnato ad andare al centro della dignità umana nelle vicende.

Però c’è anche un altro quadro di Domenico Morelli, questa volta del 1876, che rappresenta “Gli ossessi”: e qui, in questo soggetto biblico, cìò che colpisce è soprattutto la grande e vuota superficie terrosa, il grande spazio, il sapore orientale, quell’Oriente che in questo quadro si sente accomunare il mondo di “Nabucco” a quello di “Aida”. Qualcosa di più interno, di più toccabile, che un orientalismo: come se Morelli fosse in grado di toccare lui, con la pittura, quella zona di rapporto segreto fra il musicista e la storia nella sua fisicità, che noi possiamo immaginare da lontano.

Ci sono, a Casa Verdi, altri quadri, altre opere d’arte: i busti del grande Vincenzo Gemito che rappresentano Verdi, in bronzo fuso, e Giuseppina Strepponi, in terracotta. Gemito, destinato purtroppo allo sconvolgimento della mente, è uno scultore realista: per questo di Verdi si coglie l’eroicità pensosa e anche un po’ selvaggia, senza alcuna forzatura nel segno, e della Strepponi una più mite quotidianità.

Insomma, fra medaglie e oggetti che ricordano la vita e in qualche modo la presenza di Verdi, tra cui anche un suo pianoforte, ci sono anche opere dove la riflessione porta a una conoscenza più ampia, a prospettive non ancora studiate.

È interessante, nel cuore di una casa di riposo, un fatto culturale e artistico così stimolante. Ancora una volta, qui, la memoria si intreccia con la possibilità di procedere dalla memoria verso pensieri e proposte vitali, in maniera del tutto originale, e senza alcuna proclamazione. Verdi, d’altra parte, era in grado di fare un’intemerata contro il critico Filippi, della “Perseveranza”, che intendeva seguirlo alla “prima” dell’“Aida” al Cairo, perché gli sembrava che ciò appartenesse alla “propaganda”. Quel tanto di riottosità orgogliosa e di umile senso del limite, nella pazienza della storia, oggi ci prende di sorpresa.

Chi si occupa, anche attraverso un libro, di Casa Verdi, e sente presente questo pudico atteggiamento, a volte è quasi in imbarazzo. Vorrebbe scriver secco, senza lodare, senza guidare all’ammirazione. Ed è contrastato dall’esigenza di far notare, però, come un’iniziativa, un’istituzione, una cosa viva, abbia superato, il secolo di vita, e che possa, anche oggi, esistere senza sospetti, senza interruzioni.

Proprio alla maniera di Verdi che, forse per civetteria, forse per pessimismo, immaginava che la sua fama difficilmente avrebbe superato i trent’anni dalla morte, ma che fu sempre considerato uno dei personaggi forti, puliti, grandi della nostra storia. Non toccato da alcuna contestazione, ne antica ne moderna, se non quella dei dibattiti estetici legati al gusto, cominciati già durante la sua vita, e che sono sempre un po’ enfatici ma alla fine fattivi e corroboranti nella vita del teatro.